Tratto da ‘Caro Michele’ NATALIA GINZBURG - edizioni Einaudi Torino -
Una donna che si chiamava Adriana si alzò nella sua casa
nuova. Nevicava. Quel giorno era il suo compleanno. Aveva quarantatré anni. La
casa era in aperta campagna. In distanza si vedeva il paese, situato su una
collinetta. Il paese era a due chilometri. La città era a quindici chilometri.
Essa abitava da dieci giorni in quella casa. Infilò una vestaglia di velo color
tabacco. Cacciò i piedi lunghi e magri in un paio di pantofole color tabacco,
slabbrate, con un bordo di pelo bianco molto frusto e sudicio. Scese in cucina
e si fece una tazza di orzo Bimbo, e ci inzuppò diversi biscotti. Sul tavolo
c’erano delle bucce di mele e le radunò in un giornale destinandole a dei
conigli che non aveva ancora, ma che aspettava perché glieli aveva promessi il
lattaio. Poi andò nel soggiorno e spalancò le imposte. Nello specchio che era
dietro il divano salutò e contemplò la sua alta persona, i corti e ondulati
capelli colore del rame, la testa piccola e il collo lungo e forte, gli occhi
verdi, larghi e tristi. Poi sedette alla scrivania e scrisse una lettera al suo
unico figlio maschio.
«Caro Michele – Ti scrivo soprattutto per dirti che tuo
padre sta male. Vai a trovarlo.
Dice che non ti vede da molti
giorni. Io ci sono andata ieri. Era il primo giovedì del mese. Lo aspettavo da
Canova e lì mi ha telefonato il cameriere che lui stava male. Così sono salita
su. Era a letto. Mi è sembrato molto sciupato. Ha le borse sotto gli occhi e un
brutto colore. Ha dolori alla bocca dello stomaco. Non mangia più niente.
Naturalmente continua a fumare. Quando vai a trovarlo, non portare lì le tue
solite venticinque paia di calzini sporchi. Quel cameriere che si chiama Enrico
o Federico non mi ricordo, non è in grado di sopportare il peso della tua
biancheria sporca in questo momento. È stranito e intontito. Non dorme la notte
perché tuo padre chiama. In più, è la prima volta che fa il cameriere perché
prima lavorava in un elettrauto. In più, e un completo cretino. Se hai molta
biancheria sporca, portala da me. Ho una donna di servizio che si chiama Cloti.
È venuta cinque giorni fa. Non è simpatica. Siccome il muso ce l’ha sempre, e
la situazione con lei è già particolare, se tu arrivi qui con una valigia di
roba da lavare e stirare non me ne importa molto e puoi farlo. Ti ricordo però
che esistono buone lavanderie anche lì vicino allo scantinato dove tu vivi. E
tu sei in età di occuparti di te stesso da solo. Fra poco tu avrai ventidue
anni. A proposito, oggi è il mio compleanno. Le gemelle mi hanno regalato delle
pantofole. Però io sono troppo affezionata alle mie vecchie pantofole. Volevo
ancora dirti che se ti lavassi da te ogni sera fazzoletto e calze, invece di
ammucchiarli sporchi sotto il tuo letto per settimane, sarebbe bello ma questo
non mi è mai riuscito di fartelo capire. Io ho aspettato il medico. È un certo
Povo o Covo, non ho ben capito. Abita al piano di sopra. Cosa pensa della
malattia di tuo padre non l’ho capito. Dice che ha l’ulcera e questo lo
sapevamo. Dice che bisognerebbe portarlo in clinica, ma tuo padre non vuole
saperne.
Forse pensi che io dovrei
trasferirmi in casa di tuo padre e assisterlo. Anch’io lo penso in qualche
momento, ma credo che non lo farò. Ho paura delle malattie. Ho paura delle
malattie degli altri, delle mie no, ma io però non ho mai avuto grandi
malattie. Quando mio padre aveva la diverticolite, ho fatto un viaggio in
Olanda. Ma lo sapevo benissimo che non era diverticolite. Era cancro. Così
quando è morto non c’ero. Ne ho rimorso. Ma è vero che a un certo punto delle
nostra vita i rimorsi li inzuppiamo nel caffè la mattina come biscotti. Poi se
io arrivassi lì domani con la mia valigia, non so tuo padre che reazione
avrebbe. Da molti anni è diventato timido con me. Anch’io con lui sono
diventata timida. Non c’è niente di peggio della timidezza fra due persone che
si sono detestate. Non riescono a dirsi più niente. Sono grate una all’altra di
non ferire e non graffiare, ma una simile specie di gratitudine non trova la
strada delle parole. Dopo la nostra separazione, tuo padre e io abbiamo preso
quella noiosa e civile abitudine di incontrarci a prendere il tè da Canova ogni
primo giovedì del mese. Era un’abitudine che non assomigliava né a lui né a me.
Ce l’aveva consigliato quel suo cugino Lillino, che fa l’avvocato a Mantova, e
lui quel suo cugino lo ascolta sempre. Secondo suo cugino, noi due dovevamo
mantenere dei rapporti corretti e incontrarci ogni tanto per discutere dei
comuni interessi Però quelle ore che passavamo da Canova erano un tormento per
tuo padre e per me. Siccome tuo padre è una persona metodica nel suo disordine,
aveva stabilito che dovevamo restare a quel tavolino dalle cinque alle sette e
mezzo. Ogni tanto sospirava e guardava l’orologio e questa era per me
un’umiliazione. Se ne stava sdraiato all’indietro sulla sedia e si grattava la
sua testaccia nera scompigliata. Mi sembrava una vecchia pantera stanca.
Parlavamo di voi. Però a lui delle tue sorelle non gliene importa niente. La
sua stella sei tu. Da quando tu esisti s’è cacciato in testa che sei l’unica
cosa al mondo che sia degna di tenerezza e di venerazione. Parlavamo di te. Ma
lui diceva subito che io di te non avevo mai capito niente e che lui solo ti
conosce a fondo. Così il discorso era chiuso.
Tua madre